jeudi 12 janvier 2012

Il mio incubo Guantánamo

di Lakhdar Boumediene لخضر بومدين

Tradotto da  Francesca Martinez Tagliava, Tlaxcala
Questo mercoledì 11 gennaio segna il 10° anniversario dell’apertura del campo di detenzione della Baia di Guantánamo. Per quanto mi riguarda, vi sono stato detenuto durante sette di questi ultimi dieci anni, senza giustificazione né colpevolezza. Durante tutto questo tempo, le mie figlie sono cresciute senza di me. Erano ancora delle bambine quando sono stato imprigionato, ed esse non sono mai state autorizzate a farmi visita o a parlarmi per telefono. La maggior parte delle loro lettere mi sono state restituite come posta « non consegnabile », e le poche che ho ricevuto erano talmente censurate, da risultare svuotate dei loro messaggi d’amore e di sostegno.
Alcuni politici usamericani dicono che le persone detenute a Guantánamo sono dei terroristi, ma io non sono mai stato un terrorista. Se fossi stato processato in un tribunale, al momento della mia cattura, la vita dei miei figli non sarebbe mai stata lacerata e la mia famiglia non sarebbe caduta in povertà. Soltanto dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ordinò al governo di difendere le sue azioni davanti ad un giudice federale, fui finalmente in grado di riabilitare il mio nome e di congiungermi, di nuovo, con la mia famiglia.

Ho lasciato l’Algeria nel 1990 per andare a lavorare all’estero. Nel 1997, mi sono trasferito con la mia famiglia in Bosnia-Erzegovina, su richiesta del mio datore di lavoro, la Società della Mezzaluna Rossa degli Emirati Arabi Uniti. Ho lavorato nell’ufficio di Sarajevo come direttore degli aiuti umanitari per i bambini che hanno perso i loro cari durante le violenze dei conflitti nei Balcani. Nel 1998 sono diventato cittadino bosniaco. Abbiamo vissuto una bella vita, ma dopo l’11 Settembre, tutto è cambiato.

Quando sono arrivato al lavoro, al mattino del 19 ottobre 2011, un ufficiale dell’intelligence mi aspettava. Mi chiese di accompagnarlo per rispondere ad alcune domande. E’ ciò che feci, di buon grado – ma, in seguito, mi fu detto che non potevo tornare a casa. Gli Stati Uniti d’America avevano chiesto alle autorità locali di arrestarmi, insieme a cinque altri uomini. Secondo i media dell’epoca, gli Stati Uniti credevano ch’io complottassi per far esplodere la loro ambasciata a Sarajevo. Io non ho mai pensato ad un’eventualità simile un solo secondo.



Era chiaro, sin dal principio, che gli Stati Uniti avevano commesso un errore. La Corte Suprema bosniaca, che ha indagato sulle affermazioni usamericane, ha concluso che non c’era alcuna prova contro di me e ha ordinato la mia liberazione. Tuttavia, nel momento in cui venivo liberato, gli agenti usamericani mi hanno rapito, insieme ad altre cinque persone. Siamo stati legati come animali e trasportati per via aerea a Guantánamo, la base navale americana a Cuba. Qui sono arrivato il 20 gennaio 2002.

All’epoca avevo ancora fede nella giustizia usamericana. Credevo che i miei rapitori avrebbero realizzato il loro errore e che mi avrebbero liberato. Invece, quando durante gli interrogatori non davo le risposte che volevano – come potevo, se non avevo fatto niente di male ? – essi si facevano più violenti ancora. Sono stato tenuto sveglio per più giorni di seguito. Sono stato costretto a stare in posizioni dolorose durante parecchie ore per volte successive. Ci sono cose delle quali non voglio scrivere; voglio soltanto dimenticare.

Ho fatto uno sciopero della fame per due anni, perché nessuno voleva dirmi perché ero imprigionato. Due volte al giorno, i miei rapitori mi infilavano, attraverso il naso, un tubo che arrivava fino allo stomaco, passando per la gola, per fare scivolare del cibo nel mio corpo.
Era insostenibile, ma ero innocente e ho quindi continuato a protestare.


Nel 2008, la mia richiesta di un processo equo arriva fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti. In una decisione che portava il mio nome, la Corte Suprema dichiara che “le leggi e la Costituzione sono fatte per sopravvivere e per restare in vigore anche in tempo di eccezione”. La Corte ha dunque giudicato che i prigionieri come me, non importa la gravità delle accuse contro di essi, hanno il diritto di comparire in tribunale. La Corte Suprema ha riconosciuto una verità fondamentale : il governo commette degli errori. E la Corte ha fatto questa dichiarazione perché “la conseguenza di un errore può essere la detenzione di persone durante un periodo di ostilità che può durare una o più generazioni, e vi è qui un rischio troppo grande per essere ignorato".

Cinque mesi più tardi, il giudice Richard J. Leon del tribunale federale del distretto di Washington esamina tutte le ragioni addotte per giustificare la mia prigionia, comprese le informazioni segrete che non ho mai né viste né sentite. Il governo abbandona la sua affermazione di un complotto di attentato contro l’ambasciata giusto prima di essere ascoltato dal giudice. Dopo l'udienza, il giudice ordina al governo di rilasciare me e gli altri quattro uomini arrestati in Bosnia.

Non dimenticherò mai il momento in cui ero seduto con gli altri quattro in una stanzetta sordida a Guantánamo, mentre ascoltavamo attraverso un altoparlante difettoso il giudice Leon leggere la sua sentenza, in un’aula di tribunale a Washington. Egli esortò il governo a non fare ricorso in appello contro la sentenza, perché “per il nostro sistema giuridico sette anni di attesa per dare una risposta ad una domanda così importante sono, a mio parere, più che troppi”. Sono finalmente stato liberato il 15 maggio 2009.

Oggi vivo in Provenza con mia moglie ed i miei figli. La Francia ci ha offerto una casa e la possibilità di una nuova vita. Ho avuto il piacere di ricongiungermi con le mie figlie e, in agosto 2010, la gioia di accogliere un nuovo figlio, Yousef. Imparo a guidare, sto svolgendo una formazione professionale e ricostruisco la mia vita. Spero di potere esercitare, di nuovo, un lavoro attraverso il quale potere aiutare gli altri, ma il fatto che sia stato detenuto a Guantánamo durante sette anni e mezzo non ha invogliato molte organizzazioni di diritti umani a pensare seriamente di assumermi. Non amo pensare a Guantánamo. I ricordi sono pieni di dolori. Tuttavia, condivido la mia storia perché 171 uomini rimangono lì. Uno di essi è Belkacem Bensayah, che è stato rapito in Bosnia e spedito a Guantánamo con me.

Circa 90 prigionieri sono stati dichiarati liberabili da Guantánamo. Alcuni di essi sono originari di paesi come la Siria o la Cina – dove rischiano la tortura se vi fossero rispediti – o dallo Yemen, che gli Stati Uniti considerano un paese instabile. E’ per questo che restano prigionieri senza alcuna via di fuga all’orizzonte – non perché sono pericolosi, non perché hanno attaccato l’America, ma perché le stimmate di Guantánamo fanno sì che non hanno più nessun altro luogo dove andare, e gli Stati Uniti non ospiteranno nessuno di loro.

Sono stato informato che il mio processo alla Corte Suprema viene oggi studiato nelle scuole di giurisprudenza. Forse un giorno ciò mi procurerà anche della soddisfazione, ma fintanto che Guantánamo rimarrà aperta e che uomini innocenti vi resteranno, i miei pensieri saranno sempre con coloro che ho lasciato dietro di me in questo luogo di sofferenza e d’ingiustizia.   

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